mercoledì 31 ottobre 2012

Caro Babbo Natale...


No. Poi qualcuno mi dice che sono monotematica.
Che finisco sempre per scivolare sulle scarpe.
In un modo o nell'altro.
Ma queste. Queste galosce da pioggia. Fanno tanto Paperon de Paperoni.
Mi sto informando.
Le chiedo con largo anticipo, sia mai.

martedì 30 ottobre 2012

In una scatola


Cercavo altro, come capita. E mi sono ritrovata fra le mani alcuni tesori.
Il primo, è una foto da me scattata all'età di otto-nove anni circa. Attesta:
1) un sopito spirito rivoluzionario, già presente fin dalla tenera età;
2) la tendenza ad immortalare il nulla, al di là del quale si leggono storie.
Precoce la bimba.


Il secondo racconta di una Gioia diciassettenne, giunta in quel di Sappada (Cadore) al fine di governare una trentina di scapestrati minorenni presso la Colonia estiva detta "Casa bassa". Un delirio di inconsulti atti educativi diurni e di rocambolesche, notturne fughe dalla finestra. Alla faccia del Don.
Una bambina devota, mi rappresentò così. Prego notare la presenza di stivale.


L'ultimo è un autoscatto. Io e papà. Una foto d'autore sembra. Ma lui era così, sapeva fare tutto.

lunedì 29 ottobre 2012

Donne, du du du


Frequento poco l'estetista.
Due o tre volte l'anno.
Mi autogestisco.
Giovedì, spinta da un'insana voglia di abbandono, ho varcato la soglia del mio gineceo urbano.
Perchè l'estetista (donna che spesso riluce in perfezione e ti costringe ad impietosi confronti) si prende carico del tuo corpo, ma si presta volentieri a scandagliare i fondali della tua anima. Ponendo questioni che non girano mai attorno ai grandi temi, ma li affrontano, senza remore.
"Sei sposata?"
"Hai figli?"
"Quanti anni hai?"
"Che lavoro fai?"
Superato il rituale-interrogatorio dell'accoglienza, provo a staccare.
Ma dal box confinante (le parteti divisorie non arrivano al soffitto), giungono le battute di una conversazione frivola e avviata.
"Coso...hai visto?"
"Chi?"
"Il figlio dei Pooh".
"Ah, deejay Francesco?"
"Sì, lui. Hai visto? Con la Marcuzzi?"
"Poveri, si sono lasciati. Tolgo anche le sopracciglia?"
"Sì, togli un po'. Ma come mai si sono mollati?"
"Era finito l'amore, dicono. Solo amici, in pratica".
Che meraviglia, che terapia. Chiudo gli occhi, assaporo l'assoluta inconsistenza delle parole, che per una volta, viaggiano senza peso.

domenica 28 ottobre 2012

Letargo


 
Passo le mie giornate frugando nel cassetto delle cose smarrite. Oggetti dimenticati, che potrebbero dare un senso al mio attendere. Forse, d'incanto, ogni oggetto andrà in cerca del suo posto, del suo luogo, di una corrispondenza. Occhiali caleranno su nasi che non sapranno riconoscerli. Vecchie viti entreranno in fori ormai occupati. Anelli forzeranno dita troppo grosse.
E tutti questi oggetti, troveranno casa in me.
Ma ci vuole tempo.
Devo prepararmi all'inverno. Costruire una tana di foglie e muschi, che si lasci solcare dalla luce. Strappi di sole -prima freddo, poi capace di spremere gli odori- che raccontino quanto prossimo sarà il risveglio.

sabato 27 ottobre 2012

Disorientati


LA POESIA CHE NON HO SCRITTO (R. Carver)

Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.

Here is the poem I was going to write
earlier, but didn’t
because I heard you stirring.
I was thinking again
about that first morning in Zurich.
How we woke up before sunrise.
Disoriented for a minute. But going
out onto the balcony that looked down
over the river, and the old part of the city.
And simply standing there, speechless.
Nude. Watching the sky lighten.
So thrilled and happy. As if
we’d been put there
just at that moment.

venerdì 26 ottobre 2012

Casa




And I thank you
From bringing me here
For showing me home
For singing these tears
Finally I've found
That I belong
Feels like home
I should have known
From my first breath

giovedì 25 ottobre 2012

Osservatori


Abbiamo ospitato oggi degli osservatori da Sorrento.
Significa che la nostra scuola è così interessante, da indurre qualcuno a percorrere settecento chilometri per visitarla. Per vederci all'opera. Un esempio, un modello. Un'esperienza che può essere felicemente replicata.
E i sorrentini, vorrebbero provarci.
Ma dico, davvero? Si parla veramente di noi?
Non ci crediamo ancora. Di essere così capaci.
Quando la formatrice che accompagnava gli ospiti ha detto con semplicità "ben presto verranno a Sorrento Gioia e Serena, per darvi qualche indicazione su come impostare le cose", abbiamo guardato meglio questa "nostra" creatura.
Che in fin dei conti, funziona.
Che alla fine, è piena di belle azioni e bei pensieri.
Che fa star bene chi la guarda.

mercoledì 24 ottobre 2012

Mamma

La mia mamma, anche se giovanile e bella, è sempre una mamma.
Così oggi (purtroppo, soltanto una volta alla settimana azzeriamo gli ottanta chilometri che ci dividono) passseggiando per il centro, ha fatto quello che tutte le mamme fanno.
Nell'ordine.
Mi ha ricordato che devo ringraziarla per essere venuta così bene e riconoscere che è merito suo.
Mi ha regalato dell'intimo, dicendo alla commessa "è assurdo che mia figlia si imbarazzi quando la guardo svestita, in fondo, l'ho fatta io".
Al bar, dopo aver sorbito il suo caffè, ha bevuto le due dita di coca-cola che avrei impunemente abbandonato nel bicchiere, sottolineando che è un vero peccato buttare via la roba.
E quando la mia mamma fa la mamma, mi piace da morire.

martedì 23 ottobre 2012

Scarti laterali


"Sei prevedibile".
Così disse qualcuno, tempo fa, ad un caro amico. 
Che poi. Da che pulpito.
E' comprensibile, lui se la legò al dito.
Perchè oggi la prevedibilità, lungi dall'essere una dote, inchioda e congela.
"L'ho sposato perchè aveva un lavoro fisso, niente grilli per la testa, ed era solido". 
Lo dicevano le nostre mamme. Potremmo mai udire una donna da marito (sempre che ne esistano ancora) pronunciare siffatta frase? 
Quanto è bello e carico di phatos il non prevedibile? Quanto ci richiede in temini di assimilazione, accomodamento, attenzione, stupore, gioia e dolore? 
Chi non si fa predire, allena il prossimo ad esistere.

lunedì 22 ottobre 2012

Epifanie


Quest'estate, al mercatino di Vicenza, ho raccattato alcuni volumi.
Libri per bambini e ragazzi, dalle illustrazioni pastellate e campestri.
Un euro al tomo.
Un euro? Ma pagherei cinque volte tanto ognuna di queste tavole!
Li acquisto.
Nella prima pagina di Incompreso campeggia:
Epifania 1957, tua nonna Rosina
Commozione. Epifania. Non lo dice più nessuno.

domenica 21 ottobre 2012

Ho letto


Dovremmo costruire monumenti 
ai momenti insignificanti delle nostre vite:
la felicità è retta 
da questi maestosi pilastri di noia.

Gabriele Picco

sabato 20 ottobre 2012

Luoghi


Venezia era impensabile oggi, ma il mio mare è qui, a soli cinquanta chilometri.
Il cielo pesa, è di fumo e cenere. Poco prima di imboccare il pontile che separa Grado dalla terraferma, la vedo, ben nascosta. Mi cercava, la attendevo.
Non ci credevo, un tempo.
Che fossero i luoghi a cercare noi.
E' stata la vecchia stazione, questa casa murata a metà. Piena di segni di vita, piena di odori, un moscone che ronza e sbatte sul vetro rotto.
Chi? Quali voci? Quante notti di sonno e di veglia?
Appena più in là, il mare e i suoi traffci.
Il viavai del sabato, negozi di scarpe che ostinatamente espongono gli ultimi sandali aperti, in saldo. 
E i tedeschi ancora in maniche corte, pronti ad affrontare una giornata lenta di cozze, seppie e buon Traminer. Qualche ora alle terme, satolli e pigri, uno straccio di abbronzatura sugli avambracci.
E' un mare che mi somiglia, oggi. Piatto, silente. In attesa.

venerdì 19 ottobre 2012

Venice

E' passato troppo tempo dal mio ultimo fine settimana veneziano. Quasi tre anni. E Venezia, dopo un po', mi manca. L'ultima volta, ho scoperto il sestiere Cannaregio, i suoi silenzi, i suoi ocra.
Una coppia di giovani architetti gestisce un Bed and Breakfast infilato fra case smilze e ponti scontrosi, nello stesso cortile in cui, cent'anni fa, si insegnava l'uso di pialla e scalpello ai giovani falegnami. Ne rimane un'insegna ruggine e gialla.

Durante quel breve soggiorno, ammirai al Peggy Guggenheim l'Impero delle luci di Magritte. Una delle opere più belle e d'impatto che mi è mai capitato di incrociare. Parlo da profana, da mera osservatrice del dato sensibile, ma c'è qualcosa, in quel riflettersi della luce sull'acqua, che mi riporta ad una dimensione altra. O forse a qualcosa di me, lasciato in un remoto luogo, che attende il mio ritorno. 

Oggi, sole tiepido e aria di muschio, ho sentito Venezia che mi chiamava.

giovedì 18 ottobre 2012

Mai sola


Grazie a quella ragazza dagli occhi scuri, che sa ascoltarmi. Che ogni giorno accoglie le mie parole, la mia rabbia, le mie allegrie, i miei sbalzi d'umore. Ma anche i tanti slanci. Gli abbracci, che ruvidamente ricambia.
E grazie all'altra, che pare sempre così sensata. Così posata. Così prevedibile. E che invece cova un fuoco e di fuoco veste ogni sua risposta.
Ancora grazie. Ad un sms che ti arriva proprio quando senti che non va, quando non c'è un posto per te, per il tuo corpo stanco.
"Come stai, amica?". Può bastare, a volte.
Capita di solidarizzare così, come captando, come cogliendo, fra donne.
Ieri solo un rapido sguardo, due mezze frasi, un gesto vago. La formatrice legge, nelle mie parole da scatola lavorativa, qualcosa. Chiede, sorridendo. Confermo, annuendo. 
"Un giorno ci faremo un caffè", dice.
Donne. Capelli, aspettative, calze colorate. Ma come facciamo. A sentire, a capire, a far suonare le parole che ascoltiamo? 
Chi lo insegnò, a quella prima donna?

martedì 16 ottobre 2012

Amore e scrittura

Ernest Hemingway era un ragazzo bellissimo e intenso.
Hadley Richardson era una donna semplice, senza pretese.
Lui aveva vent'anni, lei ventotto.
“Ti andrebbe di leggere qualcosa di mio? Non è ancora un racconto, giusto un abbozzo”.
Il dono delle proprie scritture, l'onore di riceverle, la gioia del leggerle e l'attesa delle parole che accompagneranno la restituzione.
Perchè ogni scritto dice di noi, è un po' di noi, che attraversa occhi, luoghi, espressioni.
E a noi vuole tornare.
Si amarono.

lunedì 15 ottobre 2012

Un rap per me

Due chiacchiere con un amico.
Mi dice che sto bene, che sono sorridente, che ho l'aria di una che passa un buon periodo.
E mi verrebbe da dire.
Che invece sono in mezzo al mare. Che cerco i fili e non li trovo.
Rispondo solo che in verità sono una dissimulatrice esperta. Potrei insegnarla, l'arte del dissimulare.
Sorriso, schiena eretta, coda sbarazzina, parlantina lieve e sciolta.
"Capisco", dice, "anche per me è così". Il ruolo, la maschera, la facciata da tener lustra.
E poi, come potrei non mettere su un sorriso. Quando arrivo in classe e tutte quelle teste aspettano una parola. Uno sguardo.
Marco, sei anni, rientra oggi dopo un'influenza; ha ancora il faccino sciupato. Tiene un foglio fra le mani. Mi guarda fisso, attende. Io sono altrove.
Poi li sento, quegli occhi su di me.
"Hai portato qualcosa per noi, Marco?"
"Sì, maestra. Mentre ero a casa,  ho inventato una canzone rap". Sorrido.
"Vorresti farcela sentire?"
Ed ecco che questo bambino ancora pallido e provato, si alza ed improvvisa il suo rap, scritto in stampatello azzurro su un foglio stropicciato. 
Me lo guardo incredula. Si può essere tristi di fronte a tanta vita?

domenica 14 ottobre 2012

L'indigestione


Forse gli spaghetti, sì.
Ma anche il pesce, a dire il vero, portava un vago sentore stantio. Una notte seduto sulla tazza del cesso, e i borborigmi a decidere se praticare la salita, verso la cavità orale, o la discesa, negli inferi di anse e viscere.
Ora, seduto nella sala d'aspetto - fòrmica, finti ficus, laghi montani affissi alle pareti - conta le piastrelle. Ventidue per arrivare in fondo al corridoio. Cinque fino alla porta chiusa del medico di guardia. 
Lo stridere di una sedia scostata, parole di congedo, la maniglia si abbassa.
Dalla porta aperta arretra l'abbondanza di un culo enorme, colossale. Trascina un dorso possente, un cranio piccolo e nero che annuisce deferente.
“Allora così dottoressa, ci porto la carta la prossima volta. Sì. Grazie.”
L'uomo richiude con scrupolo, non senza guardare Pietro. Che fa? Un cenno con la testa in direzione dell'ambulatorio? Sorride? Ammicca? Ma che vuole?
“Prego, il prossimo”. Stentore, pulita, una lievissima inflessione.
Pietro entra con il pieno e il vuoto della sua indigestione, ondeggiando leggermente.
“Si accomodi.”
Cloroformio, garza, siringa. Stetoscopio sulla scrivania. La finestra in fondo guarda un muro, la stanza è scura. Una luce al neon troppo vaga, occhieggia.
“Dunque. Mi dica.”
Ecco perché l'uomo dal grosso culo ammiccava. E' una bellezza.
“No. E' che ieri sera devo aver mangiato qualcosa che mi ha fatto male, ho vomitato sì, ho...scaricato”.
Si dice così? Come si fa a parlare di merda con una bella donna?
“Significa che ha avuto anche delle scariche di diarrea? Quante per la precisione?”
“Oddio. Cinque, sei.”
“Bene”, dice scrivendo con una mano agile, olivastra. “Feci sfatte? Gialle?”. Alza solo gli occhi, rapida.
“Non ho guardato tanto a dire il vero.” E abbozza un sorriso, e studia la bocca di lei, la piega di chi è altrove impegnato.
Niente più domande, ora ha preso il suo tesserino, inclina la testa per una nota a margine e l'orecchino verde si impiglia in una ciocca d'inchiostro.
“Quindi vomito, diarrea, nient'altro. Da quanto non vomita più?”
“Da un paio d'ore. Più o meno.”
“Va bene. Sentiamo la pancia.” La pancia.
Pietro vorrebbe esibire qualcosa di meglio; ora si vergogna, e quegli occhi gialli lo studiano così, come si fa con un taglio di carne da arrosto.
Le piccole mani camminano. Ora tastano, ora premono, ora sfiorano.
“Qui. Sente male?”
“No no.”
La vede bene, così da disteso, e coglie il leggero dilatarsi delle narici, l'ombra di un neo sullo zigomo, la grazia della scapola che affiora.
Bussano lievemente.
“Avanti.”
“Ciao. Hai mica qui lo sfigmo?”
Breve torsione di lei, è sorpresa, cambia rapida postura, si anima.
“Forse. Ciao. Prova a vedere se è nell'armadio”, e dicendolo si avvicina, si approssima, si affaccenda intorno a lui, che porta il camice aperto, su una maglietta nera e asciutta.
Parole che Pietro non sente, il crepitare di un sorriso largo.
Ma quanto riempie la miseria di questa stanza, l'entità di un'emozione?
Quanto si espande, avvolge, erompe, la luce tumultuosa di un sentire?
Torna. Lo ausculta paziente, ma distratta.
“Una banale indigestione, sembra. Può rivestirsi, le faccio la ricetta.”
Nient'altro che questo.
Esce Pietro, lo stomaco ancora contratto, il vuoto di una carta stazzonata tra le mani. Esce e ammicca, con fare complice e maschio, all'uomo che lo guarda seduto in sala d'attesa.

sabato 13 ottobre 2012

Del look, delle chiacchiere

Prime calze, prime scarpe all'inglese. Autunno. Satvolta sì.
Ieri al bar, sorseggiavo il caffè e ascoltavo due anziani commentare l'arrivo di Matteo Renzi, qui a Udine.
"Cui sa se al rive cul camper?" (traduzione dal friulano: "chissà se arriva col camper?"). Uno si volta, tutto pancia e baffi, mi sorride.
"Lei legge?", chiede.
"Sì", rispondo raccogliendo le mie cose.
"Ben, mi creda, io più leggo e più mi sento astratto".
Caspita, questa non me l'aspettavo.
Arriva l'amica, mi alzo per uscire.
Faccio appena in tempo a sentire l'altro anziano replicare.
"Ma ce ditu? Ce intendevitu dì cun astratto?" (traduzione: "ma cosa dici? Cosa volevi dire con astratto?")
Autunno. Nelle scarpe, nelle chiacchiere.

venerdì 12 ottobre 2012

Saggia concretezza

Una come me, pronta a seguire il vento, un profumo, a perdere riferimenti e ancoraggi, ha bisogno di peso.
Amici asciutti, pragmatici, ai quali affidare un pensiero da rimpolpare. E riprenderlo, quel pensiero, più denso e consistente.
Ieri, a proposito della mia nostalgia, un amico mi dice.
Ciò che tu chiami nostalgia, per me potrebbe essere un "giramento senza un perché". Qualche volta mi capita ma, di solito, mi passa presto.
Ecco. Cosa c'è di più sintetico e di meno contorto?
Un giramento, che poi passa. Sacrosanto, fra l'altro.
E oggi, un'amica radicata, sana, con cui divido una piadina e un caffè. 
Le emozioni vengono, ti dai pena. Ma anche vanno, così come sono venute. Pare impossibile, pare debbano rimanere accese per sempre, ma non è così. 
Attendi. La vita prende sempre spazio, spinge, più forte di ogni palpito.
Grazie. Mi piace annusare la terra.

giovedì 11 ottobre 2012

Nostalgia


Stasera mi mancate, amiche belle.
Forse l'aria del posto.
Forse quel parlare, senza rete, senza freni, ma piene di occhi e stupori.
Gloria. Decisa ma morbida, pronta ad aprirti le braccia.
Marilde. La dolcezza di un sorriso conquistato. Una sorella ritrovata (ma dove l'avevo persa?).
Giovanna, che mi ha regalato un prezioso frammento di sè. E' ancora qui, lo conservo bene Giò.
Serena, la dimostrazione che si può essere giovani, molto giovani e molto saggi.
E il sole sui ciottoli, e una birra al tramonto, e noi.

mercoledì 10 ottobre 2012

American dream


“L'ho visto, l'ho visto, era morto!”
Jim, Claire e Ryan hanno imparato a non dargli troppa importanza. Ben fa così, per un bisogno di tenersi addosso i loro occhi attenti, per il piacere di osservare le lingue rosa molli, nelle bocche spalancate.
Ma questa volta sembra più concitato, senza controllo. La camicia scozzese pencola, vomitata sul fianco dai pantaloni di velluto grigi a coste. I lacci della scarpa da tennis hanno raccolto nel bosco fili d'erba secca, fango, una foglia rossa.
“La solita storia Ben”, dice Claire senza guardarlo, le mani nei guanti gialli a palpare ogni costola di quel piccolo gatto maculato che si è messa in grembo.
“Ma no! Vi dico che è nel bosco, dietro la casa dei forestali. Fresco, appena morto!”
“Sì, allora dorme”. Jim fa una smorfia e sputa lungo, con quella sua aria di uno che sa sempre le cose.
“Ragazzi non sto scherzando, l'ho spinto con il piede, è morto!”. E Ben caccia una voce stridula, che fa alzare gli occhi agli altri.
Ben è cattivo a volte, sa sfottere senza pietà, tirando in ballo madri e sorelle. Dalla sua però ha quella faccia di bronzo, quella capacità di vendere merda per cioccolata, che tutti gli invidiano.
Adesso invece pare più piccolo; due macchie rosse e larghe gli salgono dal collo alle guance pallide, scese.
“Ti sei pisciato addosso?”, dice Ryan sghignazzando.
La madre di Ryan lavora di sera, nel locale con l'insegna rossa. I fratelli di Ben dicono di averla vista adescare i clienti poco vestita, ubriaca, e Ben lo racconta, sfidando i pugni lerci di Ryan, i calci ciechi e furiosi.
“Dai, venite. Dobbiamo vedere chi è. Lo giriamo, sta a faccia sotto”.
Ben spera, vuole portarli nel bosco. Deve condividere questa smania, questo senso di vuoto e pieno. Un morto.
Lui voleva solo spiare suo fratello che si faceva uno spinello con Arlette, li aveva seguiti mentre guadavano il fiume.

Rincorro la gonna rossa di Arlette, non mi sfuggiranno questa volta. Ora taglio per il faggeto, così non rischio che mi vedano. Tanto so dove vanno. Arrivano fino al vecchio ponte, poi si siedono lì, con le gambe che penzolano e fumano.
Passo dietro la vecchia casa bianca dei forestali; qualche volta ho visto la grossa coda della volpe sparire in un buco, sotto le radici della quercia cava. Bastarda di una volpe, più svelta di me.
Scendo la china a piccoli passi rapidi, più sotto c'è un sacco. Un enorme sacco di juta, mezzo pieno, di quelli per la legna. Mi avvicino piano. Un mocassino nero vecchio, rovesciato, una mano bianca.
No. Non è un sacco, è un uomo riverso, i capelli radi, una gamba piegata, l'altra allungata.

“Se è una cazzata Ben, giuro che ti spezzo le ossa”, e Jim si avvia, la mani in fondo alle tasche a frugare briciole e sabbia.
Subito Claire e Ryan si alzano, lo seguono. E' lui il capo, anche se nessuno l'ha mai detto.
Ben corre appena avanti, ha paura. Forse qualcuno ha visto, il sergente è stato avvisato e hanno portato via il cadavere. Nessuno gli crederebbe più.
Claire sta parlando, come fa lei, con la testa e le braccia in movimento.
“L'ho trovato sul tappeto, speravo fosse crepato. Quel coglione, era solo strafatto di birra. Rimane così per delle ore, a terra, la mamma non lo tocca neanche. E quando si sveglia è incazzato e puzza come una fogna”.
Ryan dice qualcosa sul vomito, Claire ride e lo colpisce con un pugno sulla spalla. Finiranno per sposarsi, pensa Jim a volte. Vivranno in una di quelle case gialle con la staccionata e il barbecue, dietro il centro commerciale. Avranno due bambini coi capelli di stoppa che Ryan porterà al campeggio dei padri. Forse.
Ben si volta ogni tanto e li aspetta. Ha quell'andatura da ragazzo sovrappeso, con le ginocchia valghe che sembrano non sorreggerlo. Invece ha fiato da vendere, come battitore è un portento e l'allenatore dei Deer farebbe carte false per averlo.
“E dai, muovetevi!”
“Ben è un morto. Se è morto non si sposta da lì”, grida Jim e si chiede se davvero questa volta potranno raccontarla. A scuola, indugiando sui particolari macabri: la bocca spalancata, gli occhi rovesciati all'indietro, qualche insetto che spunta dal colletto della camicia, una mano chiusa ad artiglio.
Scendono lungo il faggeto, sul tappeto di piccole foglie accartocciate, cadute ormai da un pezzo. E' febbraio, alcune già sono terra molle, altre, trasparenti, si lasciano attraversare dalle formiche e dal sole.
Ben è sparito alla vista, anche gli altri ormai corrono.
“E' ancora qui, è qui, venite!”, la voce è carica, tesa.
Così come aveva detto, è a faccia sotto, dietro la casa bianca.
Claire si ferma, le mani a coprire la bocca, Jim e Ryan raggiungono Ben, più in basso.
“Lo giriamo?”
Claire singhiozza. “No, non voglio vedere, io vado a casa”.
“Claire, smettila! Vieni a darci una mano”. E Jim è già in ginocchio per terra, l'odore di muffa e bagnato gli sale alle narici.
“Aspetta”, dice Ben, improvvisamente cauto, “se poi prendono le impronte e tutte quelle storie lì?”.
“Sei un cagasotto Ben, vaffanculo. Se non ve la sentite sparite, faccio da solo. Via, aria!”.
Ryan si accoscia accanto a Jim. “Secondo me dobbiamo solo stare attenti a non sputare. Sui vestiti non restano le impronte digitali, ma se sputi in giro quando parli è un casino”.
Parte della tempia e l'orecchio dell'uomo sono scoperti. Claire guarda l'orecchio di cera e pensa che sia troppo fragile, sottile.
“Allora, io lo sollevo dalla spalla, tu dal fianco. Ok?”.
Ryan fa sì con la testa, ma non vorrebbe toccare. Alita la sua paura, le mani sono fredde.
Ben e Claire sono immobili, le mani lungo i fianchi.
“Dai, forza”, e Ryan guarda Ben, che sembra scuotersi. Si avvicina, affianca le mani a quelle di Jim, dice solo “pronti”.
Contano fino a tre, lo voltano.

Ci sono momenti che ci raccolgono, che ci condensano, anche a distanza di tempo, tutti interi. Quando li ricordiamo sappiamo di trovare noi stessi, veri pezzo dopo pezzo. Non c'è un attimo di ipocrisia, non un'espressione di convenienza, niente che non ci appartenga.
E quando il tempo toglie i colori alle cose, è questo ciò che resta. Quello che recuperiamo, come un pesce rosso dalla boccia. Forse sonnecchiando in un mattino di sole, o seduti su un terrazzo, il bicchiere tra le mani, un po' di nostalgia negli occhi.

martedì 9 ottobre 2012

Poeti


Ti amo come se mangiassi il pane
Ti amo come se mangiassi il pane
spruzzandolo di sale
come se alzandomi la notte bruciante di febbre
bevessi l'acqua con le labbra sul rubinetto
ti amo come guardo il pesante sacco della posta
non so che cosa contenga e da chi 
pieno di gioia
pieno di sospetto agitato
ti amo come se sorvolassi il mare per la prima volta in aereo
ti amo come qualche cosa che si muove in me 
quando il crepuscolo scende su Istanbul poco a poco 
ti amo come se dicessi Dio sia lodato son vivo.
Nazim Hikmet

Non so scrivere poesie. Le mie sono retoriche, cadenzate, a caccia di rime e non di assonanze.
Quanto mi piace quel pieno di sospetto agitato. Non è esattamente quello che ci muove, quando amiamo? Uno stato di allerta e attesa, di veglia e smania?
Una sola espressione come questa, ed ogni altra parola si modella, si adatta, si piega. 
Il pane, che apre, e la vita, che chiude.
Forse, sono stati confini e trincee, sbarre e paura, a plasmare un poeta come Nazim. io, ho solo un po' di palpiti e qualche sogno.

lunedì 8 ottobre 2012

Fitness e pregiudizi


Vado in palestra. E si sa.
Ma sono una specie di scoria, della suddetta.
Niente tutina aderente e scarpa tecnologica. Niente canotta firmata e asciugamano al collo.
Rifuggo dai discorsi pausa-pranzo delle donne che invece hanno optato per la tutina aderente.
"Guarda, mi tocca portare il piccolo da inglese a basket oggi, sono già stressata".
"Mangi la barretta??? Ma avrà 300 calorie!"
"Claudio? Potrei camminargli davanti nuda, e non se ne accorgerebbe".
"Stasera ragazze, tacco dodici e mojito! I mariti, a casa!"
No. No, fate finta che io non ci sia, tanto mi confondo con la tappezzeria. Non coinvolgetemi in questo teatrino, che poi mi passa la voglia di saltellare.
Ma.
Ecco che oggi, mentre da brava pecora nera mi cambio senza esibire le intimità e senza attraversare lo spogliatoio con deliberata lentezza da est a ovest (giuro, c'è chi lo fa. E magari si aggiusta pure i capelli mentre chiacchiera), ne scorgo un'altra. Anche lei. Di schiena, a farsi un po' gli affaracci suoi.
Ci scrutiamo, ci riconosciamo. Appartenenti alla stessa razza.
La più molesta delle amiche logorroiche sta tenendo banco.
"Onestamente, sarà pure una buona scuola, ma io vedo uscire tanti di quegli extracomunitari da lì! Non per essere razzisti sai, ma hanno le loro abitudini. Arrivano in ritardo, non vanno mai ai compleanni, non salutano...preferisco la scuola delle suore, credimi, c'è un po' di selezione".
L'altra, la mia simile, si volta. Sembra sul punto di dire qualcosa, poi dà un'alzata di spalle, rinuncia. Mi sorride. Le strizzo l'occhio.
Bene, non sono sola.

domenica 7 ottobre 2012

Desideri

Ma lo faccio solo io?
Di esprimere un desiderio la prima volta in cui, nel corso dell'anno, un frutto di stagione si riaffaccia alla mia tavola, pronto ad immolarsi al palato?
Le fragole a giugno, i fichi a settembre, le arance a novembre.
Le castagne in ottobre.
La castagna, abusatissimo simbolo dell'autunno, che assieme alla foglia gialla e al fungo marrone, ha segnato l'esistenza di tanti scolari tristi.
Però, che buona.
Qui da noi si accompagna alla Ribolla gialla, un vino ottenuto dalla pressatura delle uve appena raccolte. Roba che va giù leggera, fresca, e che mi stende, senza il tempo di una replica.
Ma dicevo del desiderio.
Ieri ho mangiato le prime caldarroste. E non mi sono dimenticata della mia richiesta. Piccola, modesta, decisamente umile. Ma proprio per questo, più facile da evadere.
I desideri devono stare al buio. Se vedono la luce sfumano, si perdono, finiscono in qualche luogo dimenticato. 
Ora, chiusa la porta, non mi resta che attendere.

sabato 6 ottobre 2012

Valentina


11 luglio 1982. 
Fa caldo. Valentina alla finestra guarda gli sterpi secchi, giù nello spiazzo, dove le case su ruote degli zingari hanno lasciato tracce, rettangoli di giallo. Torneranno per Natale.
E tornerà anche Dhael, zozza, scura, che conosce così tanti giochi. Se entri nel suo carrozzone le pulci ti saltano addosso, dicono. Valentina è salita, la mamma non lo sa, ma niente pulci. Solo un buon profumo di cipolla bruciata.
Dhael non l'ha neanche salutata, ma lei è così, cambia gente, orizzonte, si basta.
Mamma in cucina fa il minestrone. Perchè fa il minestrone d'estate? Che poi resta, sui capelli, l'odore del sedano cotto.
Canta. Ha questo vizio di allungare le vocali, modulando la voce, neanche fosse Claudia Mori.

Sara' la nostalgia
sara' che l'estate
vola viaaa...
sara' ma sono qua
un uomo che vive
per metaaà...

Canta perchè è innamorata. L'ha vista sul telo mare, seduta come in posa, le gambe di lato, mentre il papà della Silvia le passava una sigaretta. Ha visto quel gesto troppo lungo, le mani sfiorarsi, tutte una promessa.
L'amore ha una forma, un odore, Valentina ne è attratta, ne è respinta. Ma sa annusarlo.
E quella sera stessa, mentre le auto si stringono sul lungomare, fra i clacson e i tricolori sventolati dai finestrini, Valentina percepisce, netto, che il tempo ha una consistenza densa.

venerdì 5 ottobre 2012

Fare scuola, per me

Per una volta, mi concedo un post che riguarda il mio lavoro, il metodo d'insegnamento che sposo. Con passione. Una storia, un episodio, un oggetto: tutto è pretesto, alibi, per un lavoro trasversale e completo, che risponde alle domande e appaga i sensi.

Ho fatto un lavoro con i bambini, sulle fonti.
Ogni traccia del passato rappresenta, in senso lato, una fonte, ovvero il materiale di lavoro dello storico e la condizione fondamentale per la ricerca. La fonte è un oggetto che può fornire una testimonianza utile per conoscere un determinato evento. 
Ma come calarlo nel qui ed ora di un bimbo, questo concetto avulso?


Mi invento una storia. Un lavoro di indagine. Che lasci spazio alle loro parole.
Un robivecchi (chi è? breve lavoro sui nomi composti), trova una scatola in una soffitta. 
La apre, e ne esplora il contenuto. Nella scatola ci sono dei dischi. Il nostro personaggio è un uomo o una donna a cui piaceva la musica.
Secondo oggetto estratto: una pipa.
Convengono che è vera, odora ancora di tabacco.
Allora non è una donna! Poche donne fumano la pipa.
Osservo che abbiamo già alcuni dati importanti.
Decidiamo di chiamare il nostro personaggio, sicuramente un uomo, “Mister x”.
Ora il robivecchi estrae un libro.
I bambini lo annusano, lo guardano. Odora di muffa, è ingiallito, vecchio.
E' scritto in modo strano, che non si capisce. Vuol dire che è un libro di una volta.
Cosa possiamo dire, adesso, del nostro personaggio?

Mister X  è un uomo, a cui piace o piaceva leggere. Sicuramente non era analfabeta.
Scopriamo che nella seconda pagina del libro, c'è l'anno di pubblicazione (1945). Lo confrontiamo con altri libri, recenti, e verifichiamo che vale per tutti i libri visionati. I bambini riflettono sul fatto che l'anno di pubblicazione non ci darà ulteriori elementi per indagare sul nostro personaggio.
Possiamo solo dire che non può essere nato cento anni prima del 1945, osserva Giacomo. 
Quarto oggetto estratto: una fotografia.
I bambini la osservano. Si tratta si un gruppo di scolari con un maestro. Riccardo osserva che sono vestiti come ai tempi della nonna, con i calzoni corti e i calzettoni al ginocchio, anche d'inverno.
Quindi, è una foto vecchia? Sì, tutti sono d'accordo.
Quale sarà, tra questi volti, quello del nostro personaggio? Alcuni bimbi pensano sia il maestro, altri lo individuano fra gli studenti. Guardano la foto, fanno ipotesi, colgono differenze far la scuola di ieri e quella di oggi.
Quinto oggetto estratto: un documento d'identità.
La parte frontale ci dà indicazioni importanti. Il nome e la città di residenza del nostro personaggio!
Felice Colombo, Comune di Saronno (ricerca sull'atlante, Saronno è vicino a Como, in Lombardia).
L'altro lato del documento, ci rivela un primo piano di Felice, l'anno di nascita, lo stato civile e la professione. Felice è nato nel 1903, e nel 1938 (data impressa sul documento) è sposato e fa il ferroviere.
Quindi non era il maestro, nella foto!
Adesso che il robivecchi conosce il nome del nostro personaggio, vorrebbe consegnare la scatola a qualcuno che lo ha conosciuto o che lo conosce. Così decide di chiedere aiuto ad una giornalista. Il giorno dopo, sul giornale viene pubblicato un articolo:
 
Chi avesse conosciuto Felice Colombo, nato nel 1903, è pregato di rivolgersi al giornale per ritirare qualcosa che lo riguarda.

Il mattino seguente una signora bussa alla porta dell'ufficio della nostra giornalista. Si chiama Giovanna Colombo e dichiara di essere la nipote di Felice. La giornalista le fa un'intervista!
Intervista a Giovanna Colombo
Mio nonno Colombo è nato nel 1903.
Quando aveva 30 anni si è sposato e nel 1935 è nato mio padre, Antonio.
A venticinque anni papà Antonio si è sposato con mia madre Fausta, e un anno
dopo siamo venuti al mondo io e il mio gemello Pietro.
Quando avevo 12 anni nonno Felice è morto in un incidente stradale.

I bambini, utilizzando il materiale materiale della matematica, calcolano:
– in che anno si è sposato Felice
– in che anno si è sposato il figlio Antonio
– in che anno sono nati Pietro e Giovanna
– in che anno (e a che età) è morto Felice

Segue riflessione.
Come abbiamo fatto a ricostruire la storia di Felice? Ci sono serviti degli indizi! Questi indizi, la storia li chiama FONTI.
Le fonti sono:
- Materiali (oggetti: pipa, libro, dischi)
- Iconiche (immagini: foto)
- Scritte (documenti: carta d'identità)
- Orali (testimonianze di persone presenti: intervista a Giovanna)
 
Ecco. Questo per me è fare scuola.

giovedì 4 ottobre 2012

Radici

Qui è pietrame e morte. 
Ma quando una genziana riesce ad alzare il capo e fiorire, è raccolto in lei tutto il cielo profondo della primavera.
da Il mio Carso, Scipio Slataper.

Mi è estranea Trieste, ostile. Eppure è stata mia, per così tanto tempo.
Nel bellissimo graphic "Aida al confine", mi fa meno rabbia. E' come più smussata, conciliante.
Se dico Trieste, sento freddo, quella gran bora mi sale su dai piedi, allarga la gonna a corolla, e scompaio, nella scia polverosa di un Tir. 
Perchè questo mi resta, l'odore sudato e grasso della periferia.
Non quello gentile, talcato, di Piazza dell'Unità d'Italia.

mercoledì 3 ottobre 2012

Imprevisto



Io avanzo, dò un colpo di fischio, le trombe squillano, ed ecco, avviene...l'imprevisto!
Ad un tratto dalla tenda spunta l'imprevisto, galoppa attraverso l'arena, e lì sventola la bandiera per un finale grandioso!
dal film Dumbo, 1941



Mi chiedo. Sappiamo convivere con l'idea dell'imprevisto?
E poi. Perchè lo pensiamo sempre come una scure che si abbatte?
L'imprevisto sfugge alla ragione, al controllo, alla meticolosa necessità di pianificare. E allora, a che scopo mai dovrebbe punirci, prostrarci, e sogghignando farci pentire di non aver abbastanza goduto, amato, assaporato? No, almeno cinquanta e cinquanta. 
Come dire, potrà capitare un imprevisto scuro, luttuoso e straziante, ma abbiamo le stesse probabilità di stupirci, spalancare occhi e braccia, raccogliere a piene mani un'inattesa luce.
Ecco. Siamo pronti a questo?
Fin da piccoli ci dicono che lì, dietro l'angolo, sta appostata la nostra dose di sofferenza. E mai saremo abbastanza preparati. Mai. Però sappiamo portarla addosso l'aspettativa di quel dolore. Che a volte castra, più del dolore stesso.
Invece alla gioia non ci attrezzano. Nessuno ci dice "guarda, che da un momento all'altro potrebbe giungere una dose di felicità! Sei pronto?".
Ma è cinquanta e cinquanta, non dimentichiamo.

martedì 2 ottobre 2012

Cometa e bugie

 
Vada come vada il cuore è un grido, 
è pazienza infinita, 
è di costanza e dolore, 
è di gioia e di costruzione, 
è un tessuto prezioso.
 
 
Bella questa cosa, che curiosando da blog a blog, ci si fa le pulci. Come cani ad annusare la rete, in limitrofi spazi più o meno verdi.
Inoltre mi fa sentire molto blogger, e lo dico come da bambina dicevo uots ior neim? Da fighetta col pollice alzato.

Così mi sono presa il libro di Marco, Marco Valenti.
E ho ritrovato quell'intensità da caffè ristretto, da mousse al cioccolato fondente, che mi aveva tenuta appesa, leggendo i suoi post. E' bravo, assai, perchè spalmare l'intensità su scala più larga, è davvero un'impresa. Spesso romanzi anche buoni, che ci colpiscono, alternano la tensione alla distensione (e magari a distensioni troppo lunghe o annacquate). Invece Valenti ha tenuta, sa portare, e non molla la mano al lettore.
Incisivo l'uso reiterato di alcuni vocaboli che saldano un concetto ("La società che c'era ancora, dove c'era ancora il suo posto di lavoro, e ancora la sua scrivania e ancora la foto dove c'era ancora Guido"), e nello stesso tempo gli danno aria, voce, tempo per una riflessione personale.
E poi, c'è una parte femmminile nel maschile di Valenti, quell'attenzione al dettaglio, uno sguardo sulle cose (dentro e fuori), che indugia e accarezza. Ed è facile per una donna ritrovarsi, rincorrere un profumo, la curva di un pensiero.
Alcuni personaggi in cerca d'amore, i cui destini verranno irrimediabilmete plasmati da un astro di passaggio.

E intanto la ragione fa volare basso il nostro cuore.

lunedì 1 ottobre 2012

Doni

Avevo ventidue anni e la bellezza del somaro. Quella stolta, facile, scontata.
Però lavoravo già duro. 
Nel laboratorio mi occupavo di falegnameria. Io. Sì, proprio io.
Piallavamo le assi inconsapevolmente, su una sega combinata larga due metri e profonda quattro. Che se per caso chiacchierando spingevi la mano un po' più in là, ne ricavavi del buon macinato magro.
Piallavamo. Questo è il punto. Il plurale.
Io da una parte e Angelo (o Sulvan, Mario, Enzo, Ivano) dall'altra. Provetti artigiani del legno? No. Giovani portatori di handicap frequentanti il Centro. Handicap mentali, ritardi più o meno gravi.
Così poteva succedere che sul più bello, mentre io spingevo l'asse da piallare verso Mario, lo stesso venisse colto da uno dei suoi raptus e mollasse lì tutto, per strapparsi qualche ciocca di capelli. Ecco, per dire.
Altre colleghe si occupavano della ceramica, cimentandosi in attività sicuramente meno perigliose e audaci.
Capitava che volonterosi artisti locali decidessero di offrire qualche ora del loro tempo al servizio dei ragazzi, proponendo lezioni pratiche o tematiche. Fra questi, un pittore e scultore del quale ho perso ogni riferimento (anche Google non ne annusa la traccia). Credo si chiamasse Uanello, o Vuanello.
Ricordo questo minuto novantenne, con occhi chiari e vivissimi, dal quale le colleghe mi misero subito in guardia. Era un dongiovanni, un estimatore, un devoto. Il genere femminile lo genufletteva.
Lo incrociai una mattina nell'atrio. Nonostante indossassi un enorme camice da lavoro nero, l'artista non lesinò le lodi (che mai risparmiava al cospetto del gentil sesso) e lì per lì mi propose di posare per lui.
Le colleghe, dietro le porte socchiuse, sghignazzavano e si godevano la scena. Arpie.
Glissai, provai a sviare, tirai in ballo fidanzati siciliani e impossibilità oggetive. Ma non mollò. Per mesi.
Prima di ammalarsi, e di privarci della sua ironia, della sua leggerezza e della sua lezione settimanale, ci fece un'ultima visita. Mi portò quello che definì "un dono dei greci". La testa di Medusa.
Non ebbi mai modo di ricambiare.