giovedì 31 gennaio 2013

Narcisi e nasturzi


Ma il blogger, è un po' Narciso?
Ecco, mi viene da pensare.
Sistemi in vetrina le cose, le chiami condivisione, dichiari di volerti contaminare, ma la cruda verità è che metti in piazza i fatti tuoi, le foto tue, le letture tue, le musiche tue.
E poi, ti dicono "bravo", e tu sei contento.
E poi ti dicono "mi hai fatto sorridere, commuovere", e tu sei contento.
Orbene.
Oggi ho ricevuto una mail bellissima, da una donna e scrittrice bellissima. E dice questo.
Io scrivo semplicemente per riordinare i miei pensieri, per curarmi, perché con i libri e l'amore coltivo la stupida illusione di sconfiggere la morte.
Ecco, la faccio mia.
Ma è anche vero che noi ci definiamo attraverso la comunicazione, la relazione. Solo così possiamo trasformare e trasformarci. Pensiamo ad un bimbo, a quando sorride per la prima volta. Cosa accade attorno a lui? Cosa accade nei volti di chi è vicino? Trasformazioni, rimandi, altre trasformazioni.
Ma. La comunicazione, è il preludio della decentrazione. Dell'autonomia di azione e pensiero. Non uno specchio. Quindi, maestra-blogger, attenta a te.

mercoledì 30 gennaio 2013

Where are we now?



Fingers are crossed
Just in case
Walking the dead
Where are we now?
Where are we now?
The moment you know
You know, you know
As long as there’s sun
As long as there’s sun
As long as there’s rain
As long as there’s rain
As long as there’s fire
As long as there’s fire
As long as there’s me
As long as there’s you

martedì 29 gennaio 2013

Vuoti e pieni


Domenica ho fatto questi panzerotti.
Ehi, Cuoredisedano, ho fatto i panzerotti!!!!
Ma non erano buonissimi. Perchè ci ho messo poco amore.
Ed è risaputo che se il cibo lo manipoli così, senza sentimento, poi quello non ti dice nulla di sè.
Oggi a pranzo ne ho infilato uno in forno, per dargli un po' di ossigeno, visto che non si butta nulla. E' sceso nello stomaco sciapo e triste, e lì è rimasto quasi intero, fino a quando ho bevuto il caffè con la Jessica.
La Jessica aveva un bel sorriso oggi. E mi ha detto di lei, delle sue economie sagge, del suo amministrare con cura, ma godendo di ogni cosa.
Ebbene, il panzerotto si è tolto di mezzo, e l'abbraccio che ci siamo scambiate ha dissipato (per un po') il vuoto. Però basta, panzerotti.

domenica 27 gennaio 2013

Agreste


Lo stanno aspettando, arriverà a momenti, e loro occupano lo spazio. Una poltrona lisa lui, uno sgabello lei. Il fuoco acceso.
C'è quell'odore di casa di campagna. Bella, arredata con gusto. Ma di intemperie e piogge, latrare di cani, tizzoni ardenti, terra rossa.
Anche lui sa di campagna, il maglione marrone fatto ai ferri, quel gesto antico di tirarsi indietro i capelli con la mano. Sorride, e pare quando aveva otto anni, e correva fra gli ulivi, lo spinone a fiutargli i calcagni.
Parla di una donna, un nome di vocali che gli pesa sulle palpebre. Porta i ciocchi, li adagia, li attizza e senza tempo, racconta. Dei sogni, dell'amore che imbroglia, confonde, offende, accarezza.
Lei ascolta, le gambe raccolte. Poi (è curioso, non era sua intenzione) dice a sua volta. 
Parole, lisce e gialle, giungono alle labbra senza sforzo, come fossero sempre state lì. Le guarda incantata librarsi nella stanza.
“Sono molto innamorata”. Solo così.
Lui annuisce, lo aveva capito.
"E' il sogno a dare infinite possibilità", le risponde, e sorride amaro.
La porta si apre, un vento muto che fende sposta i loro pensieri, gli occhi.
Eccolo. Porta il passo sicuro dei giusti. Porta il suo viso inquieto e bello. Porta un pezzo di lei.
“Cosa stavate dicendo?”
“Passavamo il tempo, aspettando te”.

sabato 26 gennaio 2013

Vorrei


Sto leggendo "La cura Schopenauer", un quasi regalo.
Oggi, sulla strada di casa (mille chilometri in ventinove ore sono per me -pigra e poco incline allo spostamento- un record storico), guardavo la luna bianca e rosa farsi avanti, enorme, e pensavo a Julius, lo psicanalista, che domanda a Philip, sessuomane e misogino, cosa immagina scriveranno nel suo epitaffio.
Allora, guardando un cielo che si trasformava e si trasformava, in quell'ora rossa e melanconica che pesca i pensieri dal fondo, me lo sono chiesta.
Vorrei si dicesse solo che ho tenuto gli occhi aperti. Bene aperti. E che ho molto sorriso.

venerdì 25 gennaio 2013

Sera d'agosto

Marta ricorda quella sera d'agosto.

Lui a scrivere. Non aveva mangiato, non l'aveva salutata quando era arrivata. Sordo, cieco, inquieto.

Quando fuori, il profumo dell'erba aveva spento l'afa, Marta era entrata nello studio, silenziosa, per aprire le finestre.

Allora Paolo si era voltato, improvvisamente lucido, nuovamente capace di vedere, sentire.

“Ma sono le nove”, aveva detto, come direbbe un bambino.

“Sì”, aveva risposto lei sorridendo, “mangi qualcosa?”

“Vieni qui”. E Paolo aveva allungato un braccio, lasciandosi cadere pesantemente indietro sulla sedia. Gli occhi rossi, stanchi.

Marta si era avvicinata, gli aveva passato una mano fra i capelli.

Paolo l'aveva tirata a sé, e sollevandole la maglietta le aveva posato baci piccoli e rotondi sotto l'ombelico. Le labbra calde, quel peregrinare scomposto, le parole, che Paolo non sapeva tenere, a portarla altrove, a spingerle in gola i suoni.

“Mi vuoi?”, domandava piano, a palpare il desiderio, a pretendere una nudità del cuore.

Lei rispondeva di sì, la voce confusa, alterata. Ma a Paolo non bastava. Si fermava, la teneva lì.

“Mi vuoi Marta?”
"Ti voglio amore".

Allora lui la raccoglieva con gli occhi, le mani.

Marta ricorda quella sera. 
Dopo, mentre le accarezzava la spalla, il braccio sudato, aveva detto solo: “vieni via con me”.

Lei, aveva tenuto ogni parola. Calandole pian piano, per paura di perderle, romperle.
“Vieni via con me. Ti prego”.

Marta immaginò Firenze. Poi Parigi, Oslo. Balconi fioriti su piazze acciottolate, un cartoccio di pane fresco, le loro scarpe appaiate all'ingresso.

mercoledì 23 gennaio 2013

Forse, ti puoi riposare


Hai fatto tutta quella strada per arrivare fin qui
e ti è toccato partire bambina
con una piccola valigia di cartone
che hai cominciato a riempire

 

due foglie di quella radura che non c'era già più
rossetti finti ed un astuccio di gemme
e la valigia ha cominciato a pesare
dovevi ancora partire


e gli occhi han preso il colore del cielo
a furia di guardarlo
e con quegli occhi ciò che vedevi
nessuno può saperlo


e sole pioggia neve tempesta
sulla valigia e nella tua testa
e gambe per andare
e bocca per baciare

 

Hai fatto tutta quella strada per arrivare fin qui
ma adesso forse ti puoi riposare
un bagno caldo e qualcosa di fresco
da bere e da mangiare

 

ti apro io la valigia mentre tu resti li
e piano piano ti faccio vedere
c'erano solo quattro farfalle
un po' più dure a morire

 

e sole pioggia neve tempesta
sulla valigia e nella tua testa
e gambe per andare
e bocca per baciare

 

sole pioggia neve tempesta
sui tuoi capelli su quello che hai visto
e braccia per tenere e fianchi per ballare

martedì 22 gennaio 2013

Soprese

Chissà perchè spesso, al supermercato raccoglievo storie.
Ultimamente no, perchè delegavo, o ci entravo in tutta fretta, testa bassa e obiettivi chiari. Le luci al neon, gli anziani soli, la stanchezza sui volti. No, non reggevo.
Quindi svelta ed efficace.
Oggi però c'era un'amica a cena, il frigo era vuoto, e mi dispiaceva ordinare una pizza.
Una pasta alla Norma, penso. Sì, posso farla.
Melanzane, pomodori. Al posto della ricotta salata, la mozzarella di bufala. Tutto nel cestino rosso e avanti, senza passare dal via. Finito.
La cassiera è una donna appesantita, provata, scolorita. Passa i prodotti senza alzare gli occhi.
Ma ecco che un cliente, un bel signore baffuto dagli occhi vispi, le fa una battuta carina. Sul fatto che di corteggiatori, ne avrebbe a iosa, fra i frequentatori di questo Despar.
E lei si apre in un sorriso talmente bello e luminoso, che mai avrei immaginato.
Allora mi dico che la bellezza è lì, dove non la vedi.


lunedì 21 gennaio 2013

Ancora sulle parole

Ho sognato mio padre, dopo molti e molti mesi. Camminava accanto a me, ma non mi guardava mai. E ad un tratto ha fatto una cosa matta, irriverente, com'era sua abitudine. Anticonformista e sprezzante, così usava negli anni settanta. Dispezzare, sfregiare. Rubare al supermercato, con uno stipendio da giovane professore universitario. Solo per vezzo.
Insomma ho sognato che si appropriava di un documento, qualcosa di importante. E che con aria di sfida, lo graffiava con la penna blu, scrivendo a grandi lettere.
Le parole non contano.
Contano invece papà. Eccome se contano. Le parole e i racconti. Le carezze e i ricordi.

 

Lui pensa che da qualche parte, nel mondo, incontrerà un giorno una donna che, da sempre, è la sua donna. Ogni tanto si rammarica che il destino si ostini a farlo attendere con tanta indelicata tenacia, ma col tempo ha imparato a considerare la cosa con grande serenità. Quasi ogni giorno, ormai da anni, prende la penna in mano e le scrive. Non ha nomi e non ha indirizzi da mettere sulle buste: ma ha una vita da raccontare. E a chi, se non a lei? Lui pensa che quando si incontreranno sarà bello posarle sul grembo una scatola di mogano piena di lettere e dirle
- Ti aspettavo.
Lei aprirà la scatola e lentamente, quando vorrà, leggerà le lettere una ad una e risalendo un chilometrico filo di inchiostro blu si prenderà gli anni -i giorni, gli istanti- che quell’uomo prima ancora di conoscerla, già le aveva regalato. O forse più semplicemente, capovolgerà la scatola e attonita davanti a quella buffa nevicata di lettere sorriderà dicendo a quell’uomo
- Tu sei matto.
E per sempre lo amerà.
(Oceano mare, A. Baricco)

domenica 20 gennaio 2013

Solo


Avrei bisogno di gesti. Eppure ogni gesto mi costa, se è leggero, se riesce a lasciar spazio al pensiero.
Farmi la coda con l'elastico, salire in auto, lavarmi i denti.
Sì, dovrebbero essere gesti ampi, totali, muscoli e tendini a sfinirmi. Zappare, per esempio, o dare la cera.
Pensa ad altro, distraiti un po'. Ad altro cosa?
In realtà io non penso a niente, c'è solo del misto grigio e nero, che scava sempre più a fondo. Era lì, in un angolo del cervelletto, e adesso si è permesso di allargarsi, scendere alla gola, alla bocca dello stomaco.
Si annida dove passa, bastardo e subdolo. Soffoca ogni tentativo di ribellione.
Ieri per esempio. Mangiare il pesce crudo, un ristorante carino, il Prosecco che gratta ma ammorbidisce. Invece non sentire nulla. Sapore, profumo, desiderio.
Solo voglia spasmodica di vita, che sbatte e sbatte, senza trovare una finestra aperta.

venerdì 18 gennaio 2013

Presentazioni


Filippo, otto anni, scrive.
Il mio nome non mi piace, perchè mi lascia imbarazzato.
Sorrido.
Anche il mio, di nome, mi lasciava terribilmente imbarazzata alla sua età.
"Come ti chiami, bella bambina?"
"Ehmmm...Gioia"
"Che nome particolare!"
Ma io non volevo essere particolare, volevo essere normale.
E poi, da ragazzina. Uno spreco di commenti.
Così decisi di presentarmi come una qualsiasi Deborah. Con la acca.
"Piacere, sono Deborah", tutta fiera.
E nessuno, davvero nessuno, ci trovava nulla di particolare.

mercoledì 16 gennaio 2013

Palpiti


Io in terza liceo, lui in prima.
Ricordo bene la Nicoletta detta Nico, tutta ricci biondi e crespi, entrare in classe concitata e prendermi per un braccio.
"Te ga de vignir, movite, vien a veder cossa el ga fato quel mato per ti".
Perchè vivevo a Trieste. E a Trieste, si parla il triestino.
Quindi la Nicoletta disse testualmente: "devi venire, muoviti, vieni a vedere cos'ha fatto quel pazzo per te!"
Così scesi le scale, e trascinata da Nicoletta attraversai il corridoio verdino-ospedale. Ci fermammo davanti alla IA. Sulla porta dell'aula campeggiava un cartellone dal fondo scuro.
A caratteri cubitali, in prospettiva, con punto di fuga centrale, c'era scritto il mio nome.
Nico, soddisfatta e sorridente, mi guardava in attesa.
"E no te disi niente?" (E non dici niente?)
"Cossa go de dir?" (Cosa devo dire?)
Invece faceva uno strano effetto. Bello. Una cosa alla bocca dello stomaco, nuova.
Andrea, si chiamava. Lo baciai su un muretto a secco.

martedì 15 gennaio 2013

Narrare, amare

Leggi il mio ultimo post e dici sei la persona adatta a far cominciare le narrazioni, e sei quella che per timore le spezza subito, perché magari vengono troppo bene.
E magari hai ragione.
Codarda?
Scrivere è come amare, forse. Richiede dedizione e anima, luoghi e corpo.
E poi.
L'insuccesso. Le parole che più vai avanti e più hai paura. Di vederle perdere in definizione, purezza. 
Che più le accumuli (le guardi, posarsi l'una sull'altra), e più le confronti alle prime, perfette, solide.
Anche in questo, scrivere è come amare.
Abbandonarsi alle narrazioni. Sì, ci vuole fegato.

lunedì 14 gennaio 2013

L'incanto


Fu proprio lui a insegnarle l'equilibrio. Che viene dalle braccia, dalla schiena. Ma soprattutto dagli occhi.
“Qui Valerie, devi guardare qui”, e Fernando le sollevava il mento, la invitava a guardarlo dritto, mentre i piedi andavano sul filo, uno via l'altro. Lui a ritroso e lei procedendo, avanzando, le membra tese, le dita arcuate.
No, non le costava fatica guardarlo. Era così bello.
Quando rideva, che tutto pareva addensarsi lì, fra il palato e i denti bianchi.
Quando arrotolava la sigaretta, seduto nell'erba, la schiena poggiata al carrozzone. 
E raccontava, come pensasse.
“Eravamo ad Otwok, durante la festa di San Martino. Una nebbia fitta, l'elefante incatenato barriva, inquieto”.
Una alla volta, dall'ombra, uscivano le piccole figure stinte. 
Il domatore - le sue tigri a ruggire nella notte, il suo arto fantasma ad accarezzare un sogno d'amore -.
La ballerina, a piccoli passi da fata.
Il clown, levando la parrucca gialla, la mano stanca sulla testa lustra.
L'incanto. Un filo di fumo, occhi bistrati. 

domenica 13 gennaio 2013

Anche oggi


Sì Daniela, ho corso anche oggi. Certo, anche se pioveva.
Te l'avevo promesso. Perchè tu dici che fare il criceto a casa, non è la stessa cosa. Che la mia ginnastica, vale meno di zero, se la confronto al bosco.
Allora sono andata nel bosco e il bosco era lucido d'acqua, e il fiume spandeva il suo odore di marcio e detriti. Un passo dopo l'altro, ritmo e respiro, il corpo ha una forma. Un confine.
Che bello. Sapere che se sarò brava, e non mollerò, fra poco assisterò al risveglio.

sabato 12 gennaio 2013

Niente di fatto


No, ancora niente casetta.
La signora che stava in Veneto, dalla sorella, è rientrata e mi ha telefonato. Così stamattina il rifugio immaginato e sognato si è rivelato una costruzione dal grande potenziale, ma tutto da sviluppare. 
Alla bella terrazza (e già mi vedevo lì, ad improvvisare racconti rurali) si accede dopo un'impervia arrampicata sulla scala a pioli. 
Il mobilio è una via di mezzo fra la sacrestia e il laccato pretenzioso da discount. Mette una gran tristezza.
Però.
Davanti ad un buon caffè, la signora racconta del marito alcolizzato che non c'è più, delle sue piccole solitudini, stemperate dalle visite ai parenti, dalle passeggiate con la vicina che però fa la nonna, ed è sempre impegnata. Decidiamo di darci del tu, e questa intimità fresca, con una donna più grande di mia madre, mi suona bella. Mi sento già a casa.
Poi però spara grosso. Una cifra che stride con questo odore di umidità, con questa soffitta da cui piove, in un secchio. Una cifra da mansardina di centro città, travi a vista.
Eh no. Mi sa che la ricerca continua.

venerdì 11 gennaio 2013

Due soli

Spicchi. Due, due soli spicchi di arancione.
Anche se ieri c'era la nebbia e tutto sfumava inconsistente e bianco.

I miei alunni che portano a scuola (su un foglietto stazzonato, scarabocchiato, piegato) la ninna nanna preferita. Quella che li ha accarezzati, quella che non dimenticano, quella che ha il sapore della mamma.
Ogni bambino la canta, la voce rotta o un rossore lieve o un vago tremito delle mani. Emozione.
L'ultima, la conosco, la conosciamo tutti e la cantiamo assieme, da sembrare una voce.


La mia amica che davanti a una birra vuole sapere di me, e vede tutto il bello di quello che mi sta accadendo.
Mangia una patatina fritta, e intanto chiede, poi racconta e chiede ancora.
E dice di quella volta che per lui ha arrampicato la parete nord del Monte Mangart. E dell'Amore, che è gioco e leggerezza, autonomia e libertà, vita.
Ecco, vederla così viva. Nelle mani che spostano i capelli dietro l'orecchio.
Mi mette il colore sulla faccia.

mercoledì 9 gennaio 2013

Di donne e di libri


Ho preso un fascio di libri in biblioteca.
L'ho già detto e ridetto che la biblioteca mi piace.
Stasera c'era il signore che leggeva il giornale. Tre ragazzine coi leggins e la coda di cavallo che volevano la tessera subito, per poter portare via i libri. Subito.
E la mia Francesca, la bibliotecaria più strepitosa che si sia mai vista. Si è alzata, si è aggirata con me fra gli scaffali, ha estratto tomi e libercoli, ogni volta guardando prima me e dopo il libro, come a prendere le misure. Questo ti piacerebbe, questo non è per te, questo fa piangere (hai voglia di piangere?), per questo ti serve la matita (ma non sottolinearmelo, usa il bloc notes), questo l'ha letto una tipa strana e mi ha detto che è bello, forse apprezzeresti.
Parliamo di conoscenze comuni. L'amico che le ha portato i cioccolatini a Natale, per farsi perdonare i ritardi indicibili sulla consegna, e che sa ascoltare. L'amica che legge storie ai bambini, così brava da incantare.
Ciao Franci, grazie delle chiacchiere.
Ciao Gioia, ti ordino gli altri libri, ti rivedo presto.
Mi spiace uscire da qui, ho respirato un po', dopo tanto tempo.

martedì 8 gennaio 2013

Tutto per te

Mi ricordo quella volta.
Sì, era autunno.
La mamma come sempre alla scuola serale, e tu avevi fatto la cena.
Poi, appena finito (che strazio, il cibo che non sapeva piacermi, anche quando ci mettevi gli occhi di olive snocciolate), ti eri seduto al tavolo rotondo, in salotto. La luce ti faceva le mani gialle. I piedi che mi ciondolavano giù, impazienti.
"Leggi le letterine". E io leggevo.
"Scrivi le paroline". E io scrivevo.
Tutto per te. Qualsiasi cosa per una carezza.
Alla scuola materna, la maestra la prese male quando mi scoprì a decifrare un suo appunto.
"Scrive e legge, ma ha solo tre anni, e non va bene". 
Doveva essere brava, quella maestrina di periferia.

lunedì 7 gennaio 2013

I'm broke

Da qualche giorno ascolto questo pezzo. E diamine, mi fa piangere. Niente di nuovo, lo so.
Ma è una ballata così dolce e struggente.
Dice "lasciati andare", e poi "fatti abbracciare".
E dice anche "c'è tanta poesia là fuori, in questo gennaio che sa di primavera, alza gli occhi".
Io ho l'ho fatto. Ma non ricordavo i nomi delle cose.

















He wrote,
I’m broke,
please send for me.
But I’m broken too,
and spoken for,
do not tempt me

We write,
that’s alright,
I miss his smell.
We speak when spoken to,
and that suits us well
That suits us well.
That suits me well.

domenica 6 gennaio 2013

Il bel fiore


Un giorno -era forse una ricorrenza, un'occasione di festa- qualcuno regalò loro una piccola busta bianca. Senza biglietto, senza dedica. Ma chi poteva averla lasciata lì, in mezzo agli altri doni?

L'aprirono sorridendo, pensando fosse un gioco. Qualcosa da svelare.

In fondo, proprio in fondo all'involto, un granello nero, minuscolo.

“Cosa sarà?” , chiese l'uomo, che pensava fosse lei, quella delle risposte.

“Non saprei”, disse la donna, che quando non sapeva, non improvvisava mai.

Lo mostrarono allora ad un anziano vicino, che curava il suo orto verdeggiante con grande dedizione.

“Secondo me”, disse quello, dopo aver a lungo esaminato il granello, “si tratta di un seme. Mettetelo in terra, così scopriremo se è vero”.

Così l'uomo e la donna comperarono un vaso e della buona terra grassa. Poi, a favore di luna, posarono il semino su un letto scuro, e lo ricoprirono leggermente.

Attesero. Ogni mattina si ritrovavano sul terrazzo e osservavano. Spesso, ancora scalzi e spettinati, con una tazza di caffè tra le mani, imbastivano storie nuove, o ricordavano episodi del passato, così, come mai avevano fatto. Immaginavano, sognavano. Ridevano spesso, appresso a quel vaso silente.

Fu l'uomo a vedere per primo il virgulto verde, tenero, un mattino di quelli, e subito chiamò la donna, con voce rotta, gesti scomposti.

“Svelta, svelta, vieni in fretta, corri”, come se l'oggetto di tanto entusiasmo avesse potuto andarsene così, come era venuto.

Lei guardò, poi premette con l'indice la terra tutt'intorno, e disse solo “eccolo, finalmente”.

L'uomo e la donna innaffiarono. Ogni giorno. Ed ogni giorno il rituale delle storie, dei ricordi, delle parole fresche e mai udite, si ripeteva, come un miracolo.

“Ti ho mai detto che...”, oppure “ho sognato...”, o ancora “sarebbe così bello se...”. Uno parlava, l'altro ascoltava. Uno estraeva, l'altro accoglieva.

E sotto la luce di quel dire, di quel sognare, la piantina crebbe dritta, forte. Uno stelo sicuro, verde brillante, che puntava dritto al cielo.

Ora, anche nel pomeriggio dopo il lavoro tornavano al terrazzo. A volte, si tenevano per mano e tacevano. Altre, raccontavano. E raccontando si stupivano, perché ogni cosa detta, lì al cospetto di quello stelo, si tingeva di attese, allegrie, nostalgie, promesse.

Non tardò. Prese tutto il tempo che gli serviva, ma non tardò. Un bel giorno di ottobre un bocciolo bagnato, che già spandeva un leggero profumo, li ripagò di ogni sguardo, di ogni sospiro.

“Ma è autunno”, disse l'uomo “come farà a sopravvivere?”.

Lei, che non aveva risposte, disse semplicemente: “è appena nato, non sappiamo neppure che colore avrà”.

E si aprì. Con la lentezza dolce delle cose belle.

Si aprì e si schiuse, un petalo dopo l'altro.

Era il più bel fiore mai visto.

Trascorsero ore ed ore sul terrazzo, finendo per passarci qualche notte, abbracciati, stretti nella coperta. Vegliavano.

Cercavano di non sciuparlo, di non toccarlo troppo, ma annusavano voluttuosamente, per trattenere il profumo delicato, che a nessun altro profumo somigliava.

E sempre, sempre le parole. Ma parole inventate per lui, nuove, nate lì. Parole per tenerlo in vita.

Un mattino, dopo una notte inquieta, la donna si levò presto, prima dell'uomo.

E come sempre faceva portò, ancora tiepida di sonno, un saluto al suo bel fiore. Albeggiava.

Se ne accorse subito. Bisognava guardar bene, avvicinarsi molto, spostare gli altri petali. Bisognava conoscerlo il fiore, sapere che era stato di una bellezza fulgida e perfetta, senza segni. Ma era evidente: un petalo stava ingiallendo.

La donna portò una mano al cuore e fece un passo indietro. Provò a fare ordine nei pensieri, ma sentiva solo paura. E strazio.

Allora agì ascoltando il suo dolore. Si disse solo che non voleva, non poteva guardar morire il fiore un poco alla volta.

E raccolte le grosse cesoie, lo recise. Alla base.

Pianse, lacrime spesse e pesanti, che rotolavano giù, bagnando il bel fiore.

Poi raggiunse l'uomo, ancora addormentato. Lo abbracciò lieve, ascoltando i piccoli rumori del sonno, raccogliendo il calore del suo corpo.

“Buongiorno”, disse lui accarezzandola.

“Buongiorno. Voglio raccontarti una storia”.

E raccontò.

sabato 5 gennaio 2013

Immuni


Prosciutto crudo, profumato, rosso, e pane croccante, che quando lo apri fa cadere grosse briciole dorate.
"Spezza con me questo pane", dice lui pogendoglielo.
E lei allunga la mano, e assieme spezzano il pane. Ridono, portandolo alla bocca.
"Ecco, adesso non ti libererai facilmente di me", aggiunge masticando, allegro.
Il senso, la vita, sembrano addensarsi lì. Sopra i calici di vino sanguigno, e le dita che si sfiorano su una tovaglia di lino grezzo.
Non sanno vedere, fuori, la pioggia incessante, severa. Che bussa, che chiama i loro occhi alla finestra, all'ingombrante quotidiano fatto di domande, risposte, danni, riparazioni. Dolore.
Credono adesso, solo perchè amano, di avere la grazia. E quando usciranno in strada, abbracciati e sorridenti, penseranno di proteggersi da quello scrosciare solo chinando appena la testa e guradandosi di taglio, pieni di felicità.

venerdì 4 gennaio 2013

Pollicino


A volte sembra che una mano semini sulla tua strada dei segni. Sassolini di Pollicino, lucidi e bianchi, che brillano alla luce della luna. Uno dietro l'altro, basta guardare, basta serguirli.
Un nome, ad esempio. O dei luoghi. Immagini. Tornano, ritornano. 
Leggi un libro, ed eccoli.
Accendi la tv, la radio, ascolti una canzone. Eccoli, ancora lì, in fila.
E ti chiedi come possa essere che tutto, tutto ti parli al cuore. Ad ogni passo, una chiave che ti spalanca.
Vuoi capirli, i segni. Ma forse è meglio lasciarli brillare, dire, e restare ad ascoltare.

mercoledì 2 gennaio 2013

Amore folle

Pier nel suo post di fine anno ringrazia Emme dicendo: mi ha ricordato che sono ancora capace d'innamorarmi, di perdere la testa, di credere nelle persone, di avere le idee confuse, di sorridere, di chiudere gli occhi quando bacio e faccio l'amore, di ascoltare il cuore.

 
Allora pensavo. Perdere la testa, essere pazzi di qualcuno. Che pare una cosa provvisoria, a dirla così. Una cosa da cui guarire, rinsavire. Invece poi leggo Baricco.


- Cos'è che vuole sapere esattamente?
- Cosa vuol dire essere pazzo di qualcuno.
Alla donna venne soltanto in mente che capisci tutti i film d'amore, li capisci veramente. Ma anche quello non era facile da spiegare. E suonava un po' idiota.
Senza volerlo le tornarono in mente tante scene che aveva vissuto al fianco dell'uomo che amava, o lontano da lui, che poi era la stessa cosa, lo era da un sacco di tempo. Di solito cercava di non pensarci. Ma lì le tornarono in mente, e in particolare si ricordò di una delle ultime volte in cui si erano lasciati e di quello che aveva capito in quell'istante -era seduta al tavolino di un caffè, e lui se n'era appena andato. Quel che aveva capito, con certezza assoluta, era che vivere senza di lui sarebbe stato, per sempre, la sua occupazione fondamentale, e che da quel momento le cose avrebbero avuto ogni volta un'ombra, per lei, un'ombra in più, perfino nel buio, e forse soprattutto nel buio.

A. Baricco Tre volte all'alba

martedì 1 gennaio 2013

Fate madrine

Passo con Serena a fare gli auguri alla nostra madrina. A colei che dà alla nostra Scuoletta un imprimatur reiterato e vivo. Se lei dice che funzioniamo, funzioniamo davvero. Il suo benestare è un lasciapassare sicuro. E lei ci vede, osserva. Si aggira fra i tavoli mentre i bambini lavorano, ci redarguisce, si complimenta, ci chiede di guardare avanti. 
Quasi ottant'anni, scomodi nel corpo, ma incredibilmente agili nella testa che coglie, scruta, immagina.
"Sono andata dalla dietologa", racconta, "e mi ha detto che sono dimagrita poco e male. Mancava pure che mi dicesse stronza, e poi tornavo a casa contenta".
Ci fa accomodare in un salotto elegante e pieno di sole. Il marito, offre i cioccolatini e si accomoda a sua volta.
Una coppia bella, capelli candidi, sorrisi freschi. E li vedi ancora lì, intatti, i siparietti, le scaramucce, le tenerezze, i ruoli, le parole. Come appena nati.

Lui ci mostra una foto della nipotina. 
Lei ci spiega la foto.
Lui cerca un cellulare che suona.
Lei gli chiede di mettere su un tè.
Lui cerca il vassoio e non lo trova.
Lei ride e gli ricorda che lo aveva in mano quella mattina stessa. Quello con gli uccelletti.
Lui ride e lo trova. Pensavo che fosse volato via con gli uccelletti.
Lei chiede un cioccolatino.
Lui glielo porge sorrdiendo.
Lei lo ascolta raccontare.
Lui racconta di donne. E si compiace.
Lei lo guarda compiacersi.

Chissà come si fa. A non invecchiare. A non trascinarsi appresso fastidi e rancori. A non finire incartati nei propri acciacchi, nelle proprie malinconie, nella mestizia dei gesti.
Devo chiederglielo. E prendere nota.