Nessuno seppe mai da dove fosse arrivata.
La cavalla baia, comparve sulla piazza in un caldo pomeriggio di giugno. Come ogni giorno a quell'ora, il curato dormiva della grossa. Provava, povero diavolo, a raccogliersi in preghiera e contemplazione sulla sedia di abete, ma nonostante la scomodità forzata si abbandonava ad un sonno rumoroso e pesante.
Furono le grida, il tafferuglio, i suoni scomposti della paura, a risvegliarlo da sogni piacevolissimi e un poco lubrici.
Spalancò le imposte sulla strada.
Una cavalla rossa dal crine nero, sporca di fango e sterpi, si muoveva sull'impiantito di sassi, battendo gli zoccoli senza controllo, ora correndo, ora sgroppando, e scuotendo il crine scuro, come impazzita.
I pochi avventori dell'osteria, avevano abbandonato i tavolini sotto il gelso, per ritirarsi all'interno.
Il maniscalco e il fabbro, resi inservibili da un rosso aspro e schietto, osservavano la scena da dietro le finestre aperte.
"E' la bestia del Franco!"
"Ma no, quella è morta l'anno scorso".
"Non sai un cazzo di cavalli, tu".
"Per me, è un demonio".
Spaventati e vagamente eccitati dallo spettacolo, continuavano a colmare i bicchieri. A loro discolpa, c'è da dire che lassù, di novità se ne godevano ben poche. La processione, la festa paesana, l'arrivo dell'avvocato Giusti con l'amante e la servitù, una volta all'anno. Nient'altro.
Il curato, fatti due conti, si disse che era meglio starsene chiusi in casa. Qualcuno all'osteria avrebbe mandato a chiamare il dottore.
E così fu.
Il dottore, un omino macilento e stanco, si occupava poco di cristiani, lassù. Archiviata la profonda conoscenza delle arti mediche, si dedicava a vacche gravide, capi di bestiame da abbattere, a qualche bracco affetto da parassitosi.
Inforcata la bicicletta, arrivò in piazza spronato dalla grida della gente, che sulle soglie si assiepava, per non perdersi il primo atto di quella tragedia tanto ben orchestrata.
La cavalla correva, seminando polvere spessa, poi si femava ansante, gli occhi febbrili, vuoti, le narici aperte. E ancora si issava sulle gambe eleganti da sauro, con versi disperati e dolenti.
Il dottore, all'angolo della piazza, proprio sotto la finestra ora sbarrata del curato, pensò che l'unica soluzione per calmare la folla e non perdere in credibilità, fosse quella di abbatterla.
Un piccolo crocchio guardingo sibilava, premeva, infiammava le parole dell'incerto dottore.
"Sì, un colpo di fucile e la facciamo finita!"
"Bravo, così si fa dottore, così!"
E proprio mentre il Berto, appena uscito dal bosco con un fagiano da tre chili nella bisaccia, veniva adescato da alcune donne deliranti e concitate, Dario, un soldo di cacio di forse quindici chili, attravarsò la piazza a piccoli passi.
Il figlio illeggittimo della maestra Valenti, aveva occhi gialli da sognatore. E il corpo secco della gramigna, che tenacemente si radica alla vita.
Silenzio. Il frinire delle cicale ignare, scandiva il respiro corto degli astanti, gli occhi fissi sulla piccola figura in movimento, ormai al centro della piazza.
La cavalla scartò. Con sguardo obliquo e scuro si voltò, come annusando l'aria.
Dario proseguiva composto, nella sua direzione.
Il sole illuminò la cima del campanile, che battè le tre, quando il bambino dagli occhi gialli si fermò sotto la povera bestia affranta. La piccola mano allungata, le dita aperte.
Il muso rosso e bagnato dell'animale, si posò lieve su quella carne bianca e sottile, fremendo.
Fu così che la Valenti, commissionò ad un esoso orefice di città un cuore d'argento finemente cesellato, per la grazia ricevuta. E che il curato, nelle sue tediose omelie domenicali, ritrovò nuovo fervore nel citare, senza riserva alcuna, il miracolo di cui lui stesso, era stato testimone.