domenica 14 ottobre 2012

L'indigestione


Forse gli spaghetti, sì.
Ma anche il pesce, a dire il vero, portava un vago sentore stantio. Una notte seduto sulla tazza del cesso, e i borborigmi a decidere se praticare la salita, verso la cavità orale, o la discesa, negli inferi di anse e viscere.
Ora, seduto nella sala d'aspetto - fòrmica, finti ficus, laghi montani affissi alle pareti - conta le piastrelle. Ventidue per arrivare in fondo al corridoio. Cinque fino alla porta chiusa del medico di guardia. 
Lo stridere di una sedia scostata, parole di congedo, la maniglia si abbassa.
Dalla porta aperta arretra l'abbondanza di un culo enorme, colossale. Trascina un dorso possente, un cranio piccolo e nero che annuisce deferente.
“Allora così dottoressa, ci porto la carta la prossima volta. Sì. Grazie.”
L'uomo richiude con scrupolo, non senza guardare Pietro. Che fa? Un cenno con la testa in direzione dell'ambulatorio? Sorride? Ammicca? Ma che vuole?
“Prego, il prossimo”. Stentore, pulita, una lievissima inflessione.
Pietro entra con il pieno e il vuoto della sua indigestione, ondeggiando leggermente.
“Si accomodi.”
Cloroformio, garza, siringa. Stetoscopio sulla scrivania. La finestra in fondo guarda un muro, la stanza è scura. Una luce al neon troppo vaga, occhieggia.
“Dunque. Mi dica.”
Ecco perché l'uomo dal grosso culo ammiccava. E' una bellezza.
“No. E' che ieri sera devo aver mangiato qualcosa che mi ha fatto male, ho vomitato sì, ho...scaricato”.
Si dice così? Come si fa a parlare di merda con una bella donna?
“Significa che ha avuto anche delle scariche di diarrea? Quante per la precisione?”
“Oddio. Cinque, sei.”
“Bene”, dice scrivendo con una mano agile, olivastra. “Feci sfatte? Gialle?”. Alza solo gli occhi, rapida.
“Non ho guardato tanto a dire il vero.” E abbozza un sorriso, e studia la bocca di lei, la piega di chi è altrove impegnato.
Niente più domande, ora ha preso il suo tesserino, inclina la testa per una nota a margine e l'orecchino verde si impiglia in una ciocca d'inchiostro.
“Quindi vomito, diarrea, nient'altro. Da quanto non vomita più?”
“Da un paio d'ore. Più o meno.”
“Va bene. Sentiamo la pancia.” La pancia.
Pietro vorrebbe esibire qualcosa di meglio; ora si vergogna, e quegli occhi gialli lo studiano così, come si fa con un taglio di carne da arrosto.
Le piccole mani camminano. Ora tastano, ora premono, ora sfiorano.
“Qui. Sente male?”
“No no.”
La vede bene, così da disteso, e coglie il leggero dilatarsi delle narici, l'ombra di un neo sullo zigomo, la grazia della scapola che affiora.
Bussano lievemente.
“Avanti.”
“Ciao. Hai mica qui lo sfigmo?”
Breve torsione di lei, è sorpresa, cambia rapida postura, si anima.
“Forse. Ciao. Prova a vedere se è nell'armadio”, e dicendolo si avvicina, si approssima, si affaccenda intorno a lui, che porta il camice aperto, su una maglietta nera e asciutta.
Parole che Pietro non sente, il crepitare di un sorriso largo.
Ma quanto riempie la miseria di questa stanza, l'entità di un'emozione?
Quanto si espande, avvolge, erompe, la luce tumultuosa di un sentire?
Torna. Lo ausculta paziente, ma distratta.
“Una banale indigestione, sembra. Può rivestirsi, le faccio la ricetta.”
Nient'altro che questo.
Esce Pietro, lo stomaco ancora contratto, il vuoto di una carta stazzonata tra le mani. Esce e ammicca, con fare complice e maschio, all'uomo che lo guarda seduto in sala d'attesa.

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