Nonostante si vivano costanti trasformazioni (tutti i gesti e tutte le parole producono reazioni) e il nostro corpo si modifichi ogni minuto, noi vogliamo conservare.
Ci ancoriamo saldamente a quello che c'è, immaginando di essere plasmati sulle cose che ci appartengono e a cui apprteniamo. Ma ci appartengono? E noi apparteniamo loro?
Un'amica mi parla del suo bisogno di mutare. Pelle, orizzonte, luogo. Attende una benedizione, o semplicemente un sorriso di incoraggiamento. E a me non riesce. Ci provo, so che dovrei, ma d'istinto, di pancia, mi viene da metterla in guardia. Insidie, solitudine, paura. Contro curiosità, vita, sguardo che spazia.
Poi di colpo, un'immagine. Il maestro Paolo, che suona la chitarra in classe, durante l'ora di religione. Io avrò nove anni.
Imbraccia la chitarra, ci sorride e attacca il brano. Ventiquattro grembiuli blu immobili.
"Abramo non andare, non partire, non lasciare la tua
casa, cosa speri di trovar?
La strada è sempre quella, ma la gente è differente ti è nemica, dove speri di arrivar?
Quello che lasci tu lo conosci..."
La strada è sempre quella, ma la gente è differente ti è nemica, dove speri di arrivar?
Quello che lasci tu lo conosci..."
Eccolo là. Fin da piccoli ce lo dicono. E io del maestro Paolo ero anche innamorata. Come non credergli?
questo e'' quello che ricordi...ed e' quello che vale.....
RispondiEliminama e' il versetto di quelli che si oppongono ad abramo!
"esci dalla tua terra e va', dove ti mostrerò." dice jahve...:)
d'altra parte il figlio dell'uomo.. non ha dove posare il capo...
spero di non averti scosso...una certezza :)))))))))))))
No! Hai ragione, ricordo bene tutta la canzone... La canto?
RispondiEliminaPerò questo è quello che ne resta. :)