Quando
la mamma faceva le scuole serali, mi portava da una vicina di casa
piuttosto gentile, alta e segaligna, che mi faceva da baby sitter
condividendo con me la cena, finchè il papà non passava a
prendermi. Avevo quattro anni.
Ricordo
i pomeriggi invernali scuri e tristi di giochi solitari, che si
concludevano con la breve passeggiata fino a casa della signora
Premru. Il nome saturo di consonanti parlava della sua origine
slovena, comune a quella di tanti triestini.
Entravo
in un mondo di solide certezze, odore di brodo e minestrina, pattine
ai piedi e cera Liù. Mi piaceva.
A
volte arrivavano in visita due nipotini poco più grandi, che (forse
un po' gelosi della nonna) facevano a gara per farmi dei tremendi
dispetti.
Una
sera, poco prima di Pasqua, un'amica della signora passò a portare
cinque o sei pulcini gialli e neri, per farceli vedere e accarezzare.
Ero felice ed emozionata, non sapevo come toccarli: ricordo la gioia
pura e i gridolini di eccitazione quando i piccoli animali cercavano
di liberarsi, becchettando e muovendo le zampe.
Adriano,
il più grande dei due, senza farsi sentire dalla nonna, mi convinse
che quei poveri pulcini avevano bisogno di essere covati un po'
perchè sentivano la mancanza di mamma chioccia. Ascoltai compunta e
decisi che io ero abbastanza grande per accudirli a occuparmi di
loro.
Fu
così che mi sedetti sui pulcini. Li salvarono tutti, tranne uno.
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